Esplosioni e città. Il Potere dell’Illusione

di Bilal Khbeiz

Rievocando il ricordo delle automobili esplose durante la guerra civile libanese, questo articolo non cerca di condannare o di scusare la guerra, né pone la responsabilità su alcuno dei partecipanti. Questo articolo dichiara semplicemente che la guerra ha lasciato tracce che non potranno essere cancellate dagli anni di pace o di ricostruzione; ai libanesi spetta quindi il compito di imparare a vivere nella scia lasciata da questa guerra.

Il 21 gennaio 1986 alle ore 11:24 un’automobile esplose nell’area di Furn El-Chebbak, nella parte orientale di Beirut. Le automobili che si trovavano vicino ad essa presero immediatamente fuoco e in breve la strada principale fu bloccata dalle fiamme e dalle macerie. Questa esplosione cancellò una delle caratteristiche principali delle fondamenta su cui viene costruita una città.
Caratteristiche della Città
La città è innanzitutto un passaggio verso qualche luogo - una stazione durante un lungo viaggio, un’area di transito per le persone, opportunità e mezzi. La disponibilità dei servizi di trasporto è essenziale e indispensabile per la città: nessuna città è priva di una rete di trasporto attiva. Oggigiorno bisogna riconoscere l’inutilità di sterili argomentazioni o discussioni a supporto di ciò. Tuttavia, una rete di trasporto attiva è una caratteristica che ha sempre accompagnato le città. Non esistono città isolate, vale a dire in cui non si possa entrare o da cui non sia possibile uscire. Nessuna città è priva di una rete di trasporto attiva. Un’esplosione paralizza questo aspetto della vita di una città e la sua stabilità, interrompendo il flusso dei viaggiatori. Congela lo scenario di una città in una singola immagine, la cui prima caratteristica è l’incapacità di movimento.
Un’esplosione mette inoltre la morte al primo posto tra gli eventi. La città distoglie il proprio sguardo dalla morte. Così come non vuole guardare la vecchiaia, l’impotenza e l’approssimarsi della morte. Le autorità cittadine fanno costantemente in modo che questi stati rimangano nell’ombra, e così vietano il blocco delle attività quotidiane dei cittadini, costretti ad andare a lavorare, dimentichi di tutta quella morte. Al momento dell’esplosione queste attività si arrestano e vengono sostituite da uno scenario di morte, simbolo della paralisi che colpisce la città e della sua simultanea perdita del proprio aspetto magico e grandioso, che soppianta il vivere e le occupazioni di ogni giorno, da sempre rappresentative delle città e simbolizzate dal traffico.
Oltre a queste due caratteristiche, ne esiste una terza, altrettanto importante che viene paralizzata o semiparalizzata dalle esplosioni. Nel “Paodolino” di Umberto Eco, un protagonista che prende parte alla costruzione della città di Alessandria, contro e a dispetto dei desideri di Federico Barbarossa, ha da dire quanto segue in difesa della sua partecipazione entusiastica:

“Se qualcuno avesse una capra e la vendesse per due soldi, potrebbe portare con sé questi due soldi ovunque egli vada ed essi rimarrebbero due soldi e non diminuirebbero in alcuna circostanza; se qualcuno scambiasse la sua capra per due galline, tuttavia, potrebbe trovarsi costretto a mangiarle prima della loro morte e in questo modo avrebbe perso sia la capra che le galline”.

La città sostituisce il baratto con l’acquisto e la vendita, ragione sufficiente per disobbedire al Barbarossa e subire le conseguenze della distruzione di Alessandria per mano del re. Le città moderne, in particolare, controllano la circolazione dei beni e li ammassano in luoghi assegnati. Dopo essere stati prelevati dal loro ambiente naturale (sia che si tratti di un albero, che di un sapone industriale), essi vengono esposti nei negozi e nei supermercati. Al cittadino non importa conoscere il modo in cui la pelle viene conciata o a partire da quale fonte sia stata prodotta; il suo unico interesse è l’acquisto di quelle scarpe. L’esplosione arresta altresì questa funzione della città, che per Eco è una caratteristica per la quale vale la pena morire. Così, i negozi distrutti dalle fiamme sono tra le prime perdite ad essere ispezionate dopo un’esplosione.
Una quarta caratteristica della città moderna distrutta e semicancellata da un’esplosione risiede nel suo persistere su di una superficie, come pure nell’intimo di un individuo. Questa superficie viene concordata, organizzata, regolata e razionalizzata in relazione con le autorità. La sfera privata non deve essere violata, salvo che non sia stato commesso un crimine da parte del cittadino che con questo gesto mette fine alla propria privacy.
Un’esplosione scoppia e avanza fino a scoprire tutto ciò che è nascosto, mettendo a nudo gli edifici e gli appartamenti e rivelando i loro segreti, laddove nessun crimine è stato commesso per meritare questa violazione della privacy. Vi è inoltre la distruzione che colpisce gli edifici e che si contrappone alla logica della città che richiede incessantemente cura e manutenzione. Una città non deve venire trattata con un albero che ha smesso di dare i propri frutti, deve essere dotata di strade e di edifici atti al trasporto e all’abitazione o per lo meno deve venire predisposta per essi: una città non potrà mai avere una buona giustificazione per i propri edifici che si stanno trasformando in macerie.
L’ultima caratteristica che viene violata e completamente distrutta da un’esplosione è la tendenza all’anonimato attraverso la capacità di una città di riflettere contemporaneamente su una superficie direzioni, finalità e lati nascosti di vario genere. Un cittadino che attraversa la strada di una città, diretto al lavoro, supera qualcun altro diretto all’ospedale per andare a fare visita a sua moglie malata e quest’ultimo, a sua volta, supera una ragazza diretta all’università con i libri sotto il braccio, ecc. Sono tutti accumunati dal compito unificante di attraversare la strada per arrivare dall’altra parte. In questo caso la città presuppone la varietà come una delle condizioni alla base della propria sopravvivenza, prerequisito della quale sono i diversi obiettivi e le diverse destinazioni. Un’esplosione, tuttavia, trasforma all’istante questi individui in una folla omogenea con un unico scopo e un’unica destinazione: scappare dall’inferno che si è aperto improvvisamente sotto ai loro piedi o cercare di aiutare i sopravvissuti.

Il Peso della Speranza
Una singola esplosione è sufficiente per abbattere una città già di per sé fragile, cancellando quasi tutte le sue funzioni e le sue giustificazioni. Immaginiamo allora che nella guerra civile libanese si stia discutendo di oltre 3500 automobili fatte esplodere, oltre ai bombardamenti alla cieca che hanno paralizzato i civili e che sono rimasti presenti e letali e sfibranti per tutto il corso della guerra, per non parlare poi della concentrazione di bombardamenti aerei che hanno congelato la parte occidentale di Beirut durante l’invasione israeliana nell’estate del 1982. Stiamo parlando in questo caso di una vita all’interno di una città continuamente afflitta dagli spasimi di esplosioni, bombardamenti e distruzione. Invece di trattarsi di un incidente passeggero, questa situazione si è trasformata in uno stile di vita che abbiamo imparato a fronteggiare nel miglior modo possibile, sopravvivendo e resistendo in una città che abbiamo scoperto essere completamente impreparata e tanto fragile e bisognosa della nostra cura e delle nostra attenzione costanti. Sotto una tale pressione la vita ha smesso di essere autoevidente, continua, o persino prevedibile.
Ci si trova davanti a tre opzioni:
vivere una vita in perpetuo movimento, evitando la vicinanza di aree di combattimento e di probabili aree di bombardamento, nonché di quartieri che potrebbero attirare esplosioni di automobili. É la tecnica del nomade che disdegna tutti i legami con il posto in cui vive e per il quale la strada diventa l’unico rifugio. Evitare le esplosioni delle automobili non è tuttavia così facile. Non rimane allora che abbandonare il paese tutti insieme, o almeno stare il più lontano possibile da tutti i punti di ritrovo tipici della città. Un consiglio prezioso è a tale scopo quello di stare alla larga dalle fermate degli autobus, evitare le strade affollate, non sostare in ampie vie con elevata affluenza commerciale… Chi sceglie questa tecnica deve pertanto infrangere tutte le regole e iniziare quindi a lavorare quando gli altri smettono di farlo, per poi dirigersi verso casa quando gli altri escono. Come ben sappiamo ciò non è possibile: una condizione essenziale delle città è il susseguirsi ordinato delle attività cadenzate dal ritmo del tempo, compreso il nostro tempo personale. Esiste un tempo per mangiare, un tempo per fare sesso, un altro tempo per dormire e un altro tempo ancora per riposarsi. È così per tutti ed è organizzato in modo tale da non lasciare spazio a confusione o incomprensioni. Il nomade, tuttavia, demolisce il concetto di tempo e lo rende inconciliabile con le regole, e analogamente demolisce il concetto di spazio, che era originariamente coerente e famigliare e idoneo per lo studio. In altri termini, abbiamo qui a che fare con l’immigrazione di un soggetto che ci ritroviamo incapaci di osservare, prevedere, o analizzare, dal momento che l’oggetto del nostro studio non si sta più comportando in alcun modo comprensibile o organizzato su cui sia possibile effettuare una ricerca. Il nomade distrugge quindi tre concetti principali della città: tempo, spazio e l’autorità della scienza.
La seconda opzione è quella di rimanere in casa e di non avventurarsi all’esterno, salvo rari casi e con riluttanza. Questa opzione ricorda la tecnica dei minatori, rimasti per 300 anni in attesa che venisse abbattuta la regola che disciplinava la loro attività quotidiana. Si tratta di una tecnica che rende tutte le superfici della città superflue e pertanto riluttanti a sottomettersi al potere delle autorità. In un certo qual modo questa è una tecnica rivoluzionaria, sebbene alla fine rallenti lo sviluppo di una coscienza politica degli individui invece di prepararli ad affrontare il potere.
In ogni caso, vi è la possibilità di non riuscire ad adottare pienamente una delle opzioni innanzi menzionate e così viene presa in considerazione la terza possibilità, più appropriata e pragmatica, che consiste nell’unire le altre due opzioni tra loro, con i loro lati positivi e i loro pericoli – ora moltiplicati fino ad un livello quasi irreparabile.
In tali circostanze un individuo limita i propri movimenti esclusivamente all’interno del minimo di ciò che gli è famigliare. Si muove all’interno di un territorio estremamente ristretto e dipende dalla conoscenza limitata di esso. Per questo motivo i suoi vicini devono spogliarsi della propria privacy, in modo che egli possa sentirsi rassicurato circa le loro intenzioni recondite. Questo individuo rifiuta categoricamente qualsiasi sorta di straniero o di estraneo, salvo a tollerarne il puro e semplice passaggio nei territori circostanti e si chiude all’interno dei propri confini, astenendosi dal costituire un qualsiasi tipo di rapporto di comunicazione con chi gli sta accanto. Così trascorre le proprie attività quotidiane all’interno di quest’area ristretta, in modo da lavorare, mangiare e sposarsi in essa, senza doversi mai avventurare al suo esterno. Come ben si sa, ciò distrugge innanzi tutto la capacità di diffusione della cultura di una città, comprimendola all’interno di una elite ridotta che continua a restringersi via via che la guerra esercita la sua tirannia diretta. Conseguentemente rende qualsiasi opposizione nei confronti di qualsiasi potere futuro incapace di raggiungere e influenzare efficacemente il tessuto sociale. Per lo stesso pegno, questo comportamento consente al potere di contraddirsi ripetutamente, raffrontandosi con i gruppi di cittadini – sparpagliati qua e là e chiusi in se stessi e incapaci di creare alcun tipo di comunicazione reciproca – con regole completamente differenti, così che le persone non sono più tutte uguali davanti alla legge - una condizione necessaria e imprescindibile per la credibilità della vita sociale e politica delle città moderne.

Paura come Mezzo di Sopravvivenza
La cosa più pericolosa fra tutte è che il razzismo e la paura dell’altro si trasformino in un mezzo per scappare dalla morte; ciò distruggerebbe la base su cui vengono posate le fondamenta di una città, rendendo quest’ultima incapace di rialzarsi di nuovo. Ci troviamo perseguitati dal ritorno delle fortezze del feudalesismo, contro le quali le abitazioni dei singoli stridono da ogni lato. Questa sensazione è simile a ciò che si prova guardando da una delle torri moderne di Rio de Janeiro le città fatte di stagno sparse ai loro piedi come una sorta di morbillo.
Questa situazione produce conseguenze estremamente pericolose, il cui tentativo di identificazione o di definizione evidenzierebbe in breve il fatto che la loro minaccia è molto più grave se considerata nella prospettiva di un intervento dell’apparato militare o delle burocrazie al potere delle nostre democrazie moderne.
Il primo cambiamento nello stile di vita del cittadino quando ogni attimo viene vissuto dietro la minaccia di un’esplosione ha a che fare con l’esigenza di sapere chi lo circonda e chi gli sta accanto, chi sta camminando alle sue spalle. Si assiste così alla trasformazione del cittadino anonimo in una sorta di esperto di genealogia, preoccupato delle origini dei suoi vicini, nonché delle origini di coloro con cui deve interagire e impegnato nel tentativo di compiere una discriminazione tra le caratteristiche, i comportamenti e le abitudini di chi lo circonda. Tutti coloro che sono diversi da lui vengono ritenuti nemici e suoi potenziali assassini e vengono evitati il più possibile nei luoghi in cui è costretto a unirsi a loro e tenuti alla larga dal suo territorio privato, che si tratti di una zona residenziale, di un quartiere o di un distretto di Beirut. Ciò significa che le autorità che si suppone debbano proteggere il cittadino nelle sue attività quotidiane non sono più in grado di farlo ed egli è pienamente consapevole della loro impotenza. Ne consegue che la sua cittadinanza smette di fornirgli le rassicurazioni di cui ha bisogno ed egli cerca invece rifugio nei rapporti di affinità e di buon vicinato.
Su un piano differente, questa impostazione promuove i valori dei paesi a spese dei valori delle città, così che la mentalità di paese soppianta ancora una volta la mentalità di città per dettare leggi distrettuali e locali. In questo modo, anche il più fervente sostenitore della propria cittadinanza diventa inerme di fronte ad essa. I valori di paese prevalgono e hanno il predominio. Il cittadino, spaventato come se fosse il bersaglio di un bombardamento, necessita della generosità del suo vicino dell’appartamento al piano terra che gli potrebbe dare rifugio quando inizia il bombardamento. Il cittadino intrappolato in un appartamento in fiamme ha bisogno del soccorso del suo vicino e il proprietario del negozio sottostante ha bisogno dell’aiuto dei suoi vicini per spegnere il fuoco prima che raggiunga i loro appartamenti. In questo senso, lo spazio cittadino cessa di essere sicuro nelle mani delle autorità dello stato. Smette comunque di essere sicuro, ma è sempre più sicuro se vissuto secondo i valori di paese, piuttosto che secondo i valori di città o di stato.

Cittadinanza e Affinità
Con questa scoperta, unitamente all’impotenza derivante dalla consapevolezza di essere diventato un contadino e un esperto di genealogia per proteggere se stesso più attivamente, il cittadino trasformato scopre che la sua città è ora divenuta lo specchio di una tragedia assoluta. Carente e inadeguata, essa ha bisogno di qualcuno che si occupi di lei e la protegga, e che curi i suoi malanni ventiquattro ore su ventiquattro. Il cittadino si accorge di essere al servizio di una città da cui non riceve nulla in cambio. La città è fragile, incapace di sopravvivere, costantemente minacciata da malattie e dalla vecchiaia, nonché da una morte improvvisa, ed è al cittadino che spetta il compito di curarla e proteggerla. Di conseguenza, le persone che vivono nello stesso quartiere si trovano costrette a provvedere ai loro proprio servizi: dall’elettricità all’acqua, alle comunicazioni, ai trasporti, fino alla sicurezza del quartiere stesso e alla sua sorveglianza costante. Questi quartieri sono piccole nazioni, che nascondono il proprio volto dietro alla dissoluta maschera nazionale che nessuna tregua è in grado di eclissare o di dissolvere, e rimarranno per sempre piccoli ostacoli rimostranti contro lo stato che cerca di diffondere la propria autorità.
Se i tempi di una tale enorme pressione dovessero perdurare, con le morti e le esplosioni che si ripetono e i legami della città che si spezzano, gli spazi della città subirebbero una trasformazione radicale. La città, intesa come spazio, non sarebbe più ciò che era un tempo. La città diventa costantemente minacciata dalle sue esplosioni e dal suo passato, e si ritrova ad essere in perenne ascolto della sua distruzione futura. Per la città, la distruzione non è più immaginata bensì reale. Fintanto che le esplosioni continuano a verificarsi e non vengono avvertite come un incidente condannato e passeggero, la possibilità del loro ripetersi diventa manifesta in ogni momento e ogniqualvolta insorge il più piccolo problema. Quando finisce una guerra si vive con l’ossessione del suo ritorno, e questo tipo di esistenza lascia tracce visibili sulla città e sulla vita che si sviluppa intorno ad essa. L’esistenza cauta e la paura irrefrenabile del futuro, la circospezione dello straniero e dell’”altro” spingono la vita nell’ombra delle condizioni che caratterizzano una guerra, bel oltre il termine ufficiale della guerra stessa.
Osserviamo più da vicino la sensazione che si proverebbe ad essere ossessionati da un’altra esplosione. In questo caso ciò che è preoccupante non è tanto il numero delle esplosioni, quanto piuttosto la loro possibilità. In questo scenario si è ben consapevoli che l’esplosione che si è placata solo un attimo fa non è altro che un’anteprima dello stile di vita che verrà imposto sul cittadino da altre esplosioni future. Il grande dilemma è che la promessa di una vita alla mercé di esplosioni potrebbe non avverarsi mai, ma rimanere solo questo, una promessa, cosa che rende tale situazione così terribilmente spaventosa e reale ad un livello pericoloso. Per alcuni significa vivere sotto il peso di una speranza amara. In questo caso è possibile lottare contro il proprio destino, come potrebbe accadere in una zona sismica o nell’area di un vulcano attivo. Invece, si deve vivere nella gravosa speranza di potere un giorno risolvere il mistero di questi crimini e punire i rispettivi criminali. La speranza che un giorno la guerra finisca, che il terrorismo si arresti, che le sue condizioni e le sue domande vengano corrisposte, che mostri il proprio volto induce al compromesso e impedisce il confronto; induce a negare la propria responsabilità nei confronti degli eventi e a scaricarla addosso ad altri. A tuttoggi continuiamo a sostenere che si è trattato di guerre di altri sulla nostra terra.
Vivere sotto il peso della speranza significa confondere disastrosamente le tensioni. Si va quotidianamente al lavoro accompagnati dal senso di oppressione di un’esplosione già avvenuta, in uno stato di anticipazione nei confronti delle successive. Il cittadino vive il passato e il futuro nel presente, in conflitto con le condizioni di vita della città, sotto un potere statale moderno che pretende che ci si occupi esclusivamente del presente, si sia sicuri del proprio futuro e ci si lasci alle spalle il passato mentre si procede avanti. É diritto del cittadino iniziare una vita nuova ogni giorno. Dai suddetti scenari emerge che potremmo prendere in considerazione una perdita di fiducia tra il cittadino e lo stato. Lo stato sembra incapacitato a mettere ordine alla sicurezza del cittadino e quest’ultimo, a sua volta, sembra riluttante a fidarsi del proprio stato, il ché comporta l’evolversi di una situazione che determina una morte senza precedenti della vita politica e culturale.

La Fragilità è l’Origine
Ogni esplosione è un assalto irrefutabile sul cittadino anonimo e rassicurato, che ha il diritto di una protezione regolare e fidata da parte del proprio stato. L’esplosione di Furn El Chebbak, in questo senso, è un anello di una catena che, una volta completata, sigilla la formazione della città con l’assenza piuttosto che con la presenza dell’autorità politica. Dopo il verificarsi di un tale assalto sui civili, a prescindere dalla parte che l’ha commesso, qualsiasi progetto dello stato necessita di un lungo periodo di tempo per dimostrare la sua appartenenza alla città. Ciò che queste esplosioni probabilmente dimostrano è il fatto che la città fragile e mortale, minacciata dalla distruzione, è di fatto l’origine, e che i progetti politici immortali e le ideologie imperiture non sono altro che aspetti collaterali e dettagli.
All’assalto sul cittadino e sulla sua sicurezza fa seguito la trasformazione di qualsiasi autorità in un ente arbitrario. La domanda che ci poniamo sul perché di un esercito in Libano potrebbe essere così comune e logica – dal momento che siamo l’unico paese in guerra o in tensione con Israele – se non fosse per questa storia?
La guerra fredda civile in Libano si ciba oggigiorno della realtà di circospezione e rifiuto dei cittadini nei confronti del progetto governativo (e ciò vale per tutte le autorità, non solo per una in particolare). Di conseguenza, progetti politici contrastanti e incompatibili presuppongono che l’autorità vigente non sia riuscita a riunire le persone intorno a sé, insieme alle città, alle regioni e all’economia… Il progetto originale viene quindi riproposto come l’unico ricordo presente di un piano unificante e stabile. Si tratta di un tentativo maldestro di interpretare il paese come era una volta dall’angolazione di un ristretto progetto politico, adottato e fatto proprio dal governo.
Dall’altro lato emerge da un’analisi più approfondita che la guerra fredda tra la popolazione libanese non sembra essere di natura strettamente civile, malgrado il fatto che le società civili continuino a chiudersi in se stesse. La riluttanza a comunicare o ad incontrarsi con gli altri individui dei quartieri limitrofi persiste come un’opposizione parziale al progetto di unificazione dello stato. Si può asserire che la società civile rimane scettica nei confronti del linguaggio di questo progetto, proposto dallo stato, di un’unità tra i libanesi, dal momento che manca la volontà di arrischiarsi a credere ancora una volta nelle autorità. Da ora in poi qualsiasi progetto statale, anche se solo di natura turistica, verrà considerato con estrema cautela. Notiamo altresì l’esistenza di un linguaggio emergente che sta conducendo verso l’isolamento e verso nette divisioni, analogo a quello emerso nel corso degli eventi avvenuti recentemente in Spagna.
Permetteteci di domandarci ancora una volta: cosa significa essere originari di Sin El-Fil o di Achrafieh e non di Beirut? Ritengo che questa domanda confermi l’esclusione dei vicini della porta accanto dal proprio mondo personale. Per quale motivo ci ostiniamo a credere che la città sia un’unica grande massa? La risposta risiede nel fatto che la città favorisce la mescolanza e inventa coincidenze. L’abitante di Achrafieh potrebbe affermare: “Il fatto di essere un abitante di Achrafieh mi ha permesso di ottenere il mondo intero”, tuttavia egli avrebbe considerato l’abitante di Ras Beirut inadatto a vivere in quel mondo. In questo senso, il ragazzo di Achrafieh può sviluppare un senso di appartenenza al mondo soltanto essendo in primo luogo abitante di Beirut. Così Beirut diventa omonimo di Libano. Ma il Libano non è solo Beirut, a prescindere da quanto esso dipenda da quest’ultimo per giustificare la sua esistenza in uno stato di second’ordine che non ambisce alle terre dei suoi vicini, né possiede uno schema imperiale.

Beirut – Ciò che non è
La domanda rimane la seguente: per quale motivo insistiamo sul fatto che Beirut è una città e reputiamo che la città sia più duratura e meritevole delle nostre cure e della nostra attenzione?
Possiamo definire Beirut per ciò che non è, per le sue caratteristiche negative: Beirut è la città minacciata dalla distruzione materiale e la cui immagine infranta esiste di fatto nella memoria, dal momento che è già stata distrutta da una fazione attigua, tuttora attiva, fino a diventare una piccola Hiroshima. Gli israeliti non pensano o non si occupano di distruggere Damasco o il Cairo, ma affermano invece: “Distruggeremo Beirut e conquisteremo la Siria”. È proprio per questo motivo che non dobbiamo sottovalutare la suddetta domanda e il suo effetto sull’esistenza. Siamo costretti a difendere la nostra città per la mancanza di un progetto politico da difendere e, a sua volta, è a causa di questa mancanza di un progetto che siamo invece minacciati dalla distruzione della nostra città?
L’esplosione di Furn El-Chebbak colpisce una strada di città quanto mai anonima e insignificante in tutti i suoi dettagli. Presumibilmente, sarebbe stato facile ricostruire questa strada una volta ricostituito il progetto politico, insieme al governo incaricato di trasferire tale progetto sul luogo dell’accaduto. Ciò indica che la città è incapace di creare una ragione per la quale i suoi abitanti possano morire. Ciononostante, sosteniamo che un progetto politico reale ed efficace debba iniziare da un altro punto di partenza nella sua totalità, ovvero dalla difesa della città e non dello stato. Uno stato deve dare precedenza alla sua città e non dichiarare di poterla ricostruire a piacere. Non è forse vero che il progetto di Harriri non entra in questo contesto dal momento che si tratta di una decisione di ricostruzione di una città ad opera dello stato?
Possiamo così notare che questo tipo di violenza che interessa la città colpisce un nervo vitale di uno spazio e di un tempo reali, con il risultato di determinarne la disintegrazione nella realtà, laddove lo stato può sorreggersi solo considerandoli come un’unità coerente.
Dopo che i libanesi si accasarono in quella specie di sicurezza civile garantita dall’Accordo di Taif, nei primi anni novanta si resero disponibili a Beirut fotografie aeree della città, fotografie che prima e durante la guerra civile erano strettamente riservate all’uso militare e vincolate dal divieto di circolazione tra i civili. A partire almeno dalla metà degli anni novanta, queste fotografie aeree divennero accessibili a chiunque desiderasse consultarle e sulla loro base avvenne la stesura di mappe per la progettazione urbanistica della nuova Beirut, nonché di altre mappe riguardanti progetti di costruzione e sviluppo.
Queste fotografie persero il loro carattere di segretezza e divennero accessibili al pubblico. Sebbene la loro circolazione venne interpretata in un certo qual senso come progresso, essa indicava direttamente il ruolo innovativo e quasi esclusivo che uno stato post-bellico può svolgere e al cui interno può agire.
Si potrebbe notare una certa discrepanza nelle mappe dello stato tra la loro percezione di spazio e tempo, a Beirut in particolare e in Libano in generale, e tra lo spazio e il tempo reali originati dalla guerra e dai suoi orrori. Tali mappe, fotografie e libri prodotti in quel periodo avevano ipotizzato che il Libano post-bellico stesse vivendo in un tempo perduto; un tempo non documentato; un tempo per rimuovere le tracce della guerra. La mappa e la fotografia aerea, tuttavia, richiamano l’attenzione su un determinato tempo a venire, nel quale ostacoli reali saranno stati rimossi esattamente allo stesso modo nel quale essi sono stati rimossi dalla fotografia. La tecnica di assemblaggio di fotografie aeree di quartieri distinti in un’unica immagine della città, richiede che sia il fotografo sia l’editore modifichino queste foto e correggano le posizioni degli edifici e delle strade, deformate dal margine della fotografia, nel quale sono rientrate durante il movimento delle lenti ingrandenti della macchina fotografica. La macchina fotografica vede il paese in una prospettiva deformata nel momento in cui ingrandisce i particolari. Per osservare la città in una rapida prospettiva d’insieme, si dovrebbe modificare quest’ultima e correggerla sia sulle mappe che nella realtà. Stando così le cose, non esiste alcun modo per interpretare i fatti per quello che sono.
Su questa base, qualsiasi progetto statale finalizzato a riordinare un dato territorio diventa futuristico dal momento che si muove all’interno di un tempo e di uno spazio ipotetici. Ciò significa che le mappe di Solidere presupponevano fin dall’inizio che gli edifici in rovina non esistessero originariamente, e analogamente le mappe di Beirut presupponevano che quartieri come “El-Lija” e “El-Malla” non esistessero nella realtà (mentre in effetti venivano disegnate le mappe che illustravano questa non esistenza). Il tempo di cui stiamo parlando è un tempo che non è ancora venuto e che potrebbe non venire mai. Tutto ciò che le autorità stanno facendo è ricostruire un progetto continuo, unificato e unificante, basato unicamente su numeri e fatti; in altri termini, un progetto che dipende dalla quantità come unica scala per la sua solidità e per il suo successo.

La Cultura della Cancellazione
I libri che illustrano la Beirut pre-bellica e la versione ricostruita, e che divennero piuttosto popolari a partire dalla fine degli anni novanta del secolo scorso, cercano di assumersi il compito di stabilire un progetto culturale unificato all’interno di uno stato frammentato. Essi raffigurano la città come carente in modo incorreggibile di alcuni dei suoi ingredienti vitali. Questi libri e queste immagini cercano di ingannarci con l’illusione che una città fondata sulla base delle suddette mappe possa venire considerata aperta e accessibile a tutti. Ciononostante, i primi a essere espulsi da questa città nelle fotografie sono coloro che hanno preso parte alla guerra e al crimine della distruzione del paese; in altri termini, certamente tutti i libanesi. In questo senso, essi confermano le stesse relazioni mantenute dalle mappe e dalle fotografie aeree e diffondono la medesima illusione, poiché le fotografie aeree, che sono alla base delle mappe e che possono essere consultate da chiunque, non possono sopravvivere senza un raffronto con altre fotografie e altre mappe dello stesso genere e della stessa qualità. Ci troviamo quindi davanti ad una fabbrica di segni e simboli che solo uno specialista è in grado di utilizzare o interpretare. Stiamo vivendo nell’illusione che il materiale necessario sia a disposizione e facilmente ottenibile da chiunque, per poi scoprire in breve che queste informazioni rimangono alla fine cieche e sorde qualora cadano fra le mani di un profano. Per questo motivo, le questioni pubbliche vengono completamente assegnate a specialisti, dalla sicurezza alla politica, fino ai servizi di ultimo grado. Le fotografie, allora, non si limitano a riflettere ciò che esiste, ma lo decidono, allo stesso modo nel quale il governo dichiara che tutti sono cittadini. Nella mappa, ogni quartiere, ogni edificio viene svuotato dei propri segreti in modo da permettere a ciascuno di entrarvi, e viene lasciato fluttuare senza peso nel proprio spazio privato – mentre il suo valore è determinato unicamente dal prezzo.
Persino la nostra storia è diventata accessibile nella forma esclusiva delle informazioni, facilmente reperibili ora che la loro organizzazione è già in corso.
Lo spazio e il tempo hanno riconquistato la loro continuità, nel senso che ora ci è data la facoltà di misurarli e riordinarli. A questo livello, ogni progetto statale, inteso come un compito riservato alle autorità esclusive, viene trasformato in un progetto di servizi. Possiamo così venire a conoscenza dell’impotenza dello stato nei confronti di un qualsiasi gruppo civile che offre servizi ai cittadini, come ad esempio nel caso del sobborgo meridionale di Beirut, poiché l’autorità statale non può fingere di essere unificata e unificante se non nell’ambito dei servizi.
Se i servizi diventeranno l’unico compito esclusivo dello stato, quest’ultimo non riprenderà il proprio ruolo di detentore della sicurezza e della tranquillità dei cittadini e di conseguenza sarà costretto a cedere la propria sicurezza a organismi estremamente complessi e ramificati, da società private a gruppi e a partiti politici. Ciò consente allo stato di addossarsi contemporaneamente due progetti molto contradditori. Come quando una guerra, ad esempio, inizia nel Libano meridionale, mentre a Beirut procedono i lavori di un enorme cantiere senza fine; analogamente, quando i politici libanesi si chiedono se ricorrere all’uso dell’esercito nazionale, mentre simultaneamente approvano la politica governativa di prolungare la tensione sui confini dello stato.
I cittadini perdono la loro fiducia nel governo e arrivano a considerarlo con circospezione, così che persino i progetti turistici iniziano a necessitare di parecchie giustificazioni. Ciononostante, la perdita di questa fiducia non consente ad alcuno o ad alcun gruppo di sostituire il potere esecutivo o di introdurre un programma generale e completamente politico. Le opposizioni diventano isole circoscritte e il governo rimane in possesso del solo progetto legittimo unificante che, per essere realizzato, deve chiedere all’intero popolo di cambiare.