Requiem: un’ultima tazza di caffé

di Tony Chakar

“Date le circostanze ottimali, il punto di osservazione appropriato (preferibilmente con le spalle al mare) e l’angolazione visiva corretta (preferibilmente in direzione obliqua) si avvertirebbe la netta sensazione che tutti gli edifici di Beirut siano pronti per partire; la maggior parte di essi poggia su esili colonne che ne agevolerebbero lo spostamento; le loro antenne e le loro parabole potrebbero sembrare stravaganti cappelli da indossare in occasione di un lungo viaggio come questo; i loro balconi sono come valigie e scatole vuote che aspettano di venire riempite dalle piccole storie che si svolgono all’interno di ogni appartamento: lunghe ore di angoscia e istanti fugaci di eccitazione. In quei momenti Beirut potrebbe rassomigliare ad un’ampia moltitudine di barche da salvataggio che abbandonano in modo inconsulto una nave andata a picco e sarebbe quello il momento migliore per sorseggiare una tazza di caffé accanto al mare.”

Ho scritto questo paragrafo inserendolo tra le sezioni rientranti nell’installazione “A Window to the World” [Una finestra sul mondo]; riprendendo da dove ho finito, ci si potrebbe porre la seguente domanda: che ne rimarrebbe della città per la persona intenta a sorseggiare caffé accanto al mare? O forse il tempo verbale della domanda dovrebbe venire rovesciato: cosa c’era là prima degli edifici pronti per la partenza su esili colonne? Viene in mente una risposta ovvia di natura geografica: una stretta fascia di terra, fiancheggiata a destra e a sinistra da due colline, con il mare di fronte e le montagne alle spalle. O è il contrario? Il caffé è senza dubbio turco, bollito a lungo e molto amaro: il mare è di fronte alla città o dietro ad essa? Beirut poggia sulle montagne ed è nutrita da esse, o rivolge loro le proprie spalle? Il mare è l’ultima frontiera con l’occidente del vasto Impero Orientale di un tempo (arabo, islamico o levantino – non ha più importanza), oppure è una sfida di espansione nei confronti di una città sempre rivolta verso l’occidente? Una semplice descrizione geografica viene caricata di politica al limite della catastrofe: alcuni individui la chiamano guerra, o guerra civile, o la guerra di altri sul suolo libanese, o incidenti, o guerre libanizzate (una delle manifestazioni di questa catastrofe è esattamente il fatto di non avere un nome). Ma ciò che fa l’aporia della geografia è rivelare Beirut come una città terribile. Terribile come il Dio degli Gnostici, la cui parola genererebbe il bene e il male, la vita e la morte, la costruzione e la distruzione. Questo aspetto della città sfuggirebbe al visitatore occasionale, al quale verrebbe presentato un aspetto più clemente: una città in espansione, aperta e accogliente, una città accomodante, dove si mangia bene, si beve bene, si balla bene e si fanno piacevoli conversazioni. In effetti, la città non viene di fatto vista da nessuno in una fase di arretramento; in quelle condizioni diventa imperscrutabile, e manifesta presumibilmente se stessa in rotture multiple in termini di esperienza. Il dibattito sulla ricostruzione postbellica di Piazza dei Martiri è stata una di queste rotture, con ripercussioni che si sono avvertite fino ai giorni nostri, specialmente per il fatto che in un modo o nell’altro è stato una delle cause che hanno portato all’assassinio del primo ministro Rafiq Hariri. Il dibattito potrebbe venire riassunto in questi termini: Piazza dei Martiri dovrebbe venire aperta verso il mare, diventando così un viale in stile parigino, o dovrebbe rimanere una piazza chiusa, nello stile tradizionale delle città medioevali arabe? L’oggetto della discussione è ovviamente andato ben oltre la pura e semplice morfologia di una piazza, malgrado in particolare l’importanza simbolica di quest’ultima e il suo posto nella storia del Libano moderno. In quel dibattito era latente il futuro del Libano; dovrebbe entrare a far parte dell’ordine del nuovo mondo economico e diventare un paradiso monetario, rimodellando così il proprio ruolo anteguerra come un paese di servizi, o dovrebbe mettersi in riga e accettare l’egemonia della Siria che asseriva di riparare ai torti delle forze coloniali europee del XIX secolo, dalle quali il Libano fu strappato “artificialmente” dalla sua madrepatria naturale? E ancora: Beirut dovrebbe guardare verso l’occidente e aprirsi al mare o dovrebbe voltare ad esso le spalle e rivolgersi verso le montagne e al di là di esse, verso Damasco, il “cuore pulsante del mondo arabo”? Piuttosto stranamente, due dei potenziali futuri di Beirut sono coesistiti, non pacificamente, fianco a fianco per oltre un decennio, e nonostante fosse stata presa da SOLIDERE (in cui era coinvolto Rafiq Hariri) la decisione di aprire la piazza verso il mare, i progetti sono rimasti sulla carta e Piazza dei Martiri rimane tuttora non edificata. Inoltre, le collisioni costanti tra questi due progetti avrebbero eventualmente determinato due situazioni differenti: la prima, l’identificazione di Rafiq Hariri come il leader politico per eccellenza da parte della comunità musulmana sunnita, e da parte di altre comunità come un politico concretamente perseguitato dalle forze di un’egemonia che innanzitutto non ha mai creduto in lui; ciò ha portato, secondariamente, all’indebolimento dell’autorità dei leader sunniti tradizionali, che sono sempre stati più propensi a guardare oltre le montagne piuttosto che in direzione del mare. Da ultimo, questa catena di eventi ha condotto all’assassinio di Hariri, attraverso un’esplosione indirizzata alla sua auto mentre percorreva una strada cha fiancheggia il mare, durante la quale parti del convoglio e i corpi che trasportava vennero scaraventati nell’acqua. Poche ore più tardi, il corpo assassinato fu trasportato da centinaia di migliaia di persone fino ad un lungomare vuoto, in attesa dei propri edifici, con il mare come sfondo – un lungomare che la gente insiste a chiamare “piazza”, Piazza dei Martiri o Piazza della Libertà, come la si definisce di recente, e là fu sepolto.
Una città che arretra, manifestando se stessa in una serie di rotture multiple: la rottura della poesia di un luogo fiancheggiato dal Mediterraneo e da una catena biblica di montagne: la linea dell’orizzonte e la linea che segna un livello superiore, con due prospettive differenti; una rottura del rapporto tra una linea orizzontale e una linea curvilinea sospesa su di essa dall’altra parte, e una rottura del modo in cui le persone che vivono su questa fascia di terra avvertono ciò che sta sopra e ciò che sta sotto, ciò che può essere visto e ciò che non può essere visto, ciò che è vicino e ciò che è lontano e i limiti tra tutto ciò. Precisamente questo è ciò che chi sorseggia caffé, voltando le spalle alla città e fronteggiando il mare, cercava di ricuperare, nella piena consapevolezza che non è possibile aggiustare ciò che è stato rotto.