Città Bianca, città nera (una sorta di introduzione)

di Sharon Rotbard

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Una città viene costruita esattamente come la storia, sempre dai vincitori e sempre dal punto di vista dei vincitori. Chi controlla lo spazio fisico controlla sempre lo spazio culturale e non si tratta mai di chi ha perso la battaglia nel corso della storia.

Talvolta, per cambiare una città si deve cambiare la sua storia.

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A Tel Aviv, forse l’unica città al mondo alla quale è stato dato il nome di un libro,
(1) la storia della città viene denominata da lungo tempo “White City” [Città Bianca].

A partire dalla sua prima apparizione in una novella dimenticata del 1915, “The Riddle of the Land”, di Aharon Kabak, il tema della “White City” accompagna la costruzione e la crescita di Tel Aviv. Nel 1960 diventò una canzone: “White City”, scritta da Naomi Shemer (2), comparsa nel primo album solista di Arik Einstein (3) e divenne non solo quasi l’inno ufficiale di Tel Aviv, ma almeno una delle sue colonne sonore più memorabili.

Nel 1984, in un’esposizione all’interno di un museo di Tel Aviv, intitolata “White City”, curata da Michael Levin, la “Città Bianca” ha ricevuto un supporto storico e culturale. L’esposizione “White City”, (4) ha contribuito in modo estremamente discreto, modesto e sobrio a rivelare al pubblico israeliano i fenomeni che hanno accompagnato l’architettura “International Style” di Tel Aviv degli anni trenta.

Partendo da questa base, il tema è stato sviluppato da Nitza Smuck, l’architetto per la conservazione dei beni culturali della Municipalità di Tel Aviv, e dall’artista Dani Karavan e si è trasformato in una massiccia campagna storiografica di supporto ad un progetto di conservazione ampio e ambizioso. La storia della “Città Bianca”, con i suoi edifici in “Bauhaus Style” emergenti “dalle dune” è il risultato di una lunga serie di azioni, progetti, eventi, conferenze, esposizioni, libri.

Inizialmente la storia ha cambiato unicamente il modo in cui gli abitanti di Tel Aviv percepivano la loro città. Ha cambiato le geografie locali, influenzato il mercato immobiliare e inciso sulla politica di conservazione della municipalità di Tel Aviv.

In breve tempo, tuttavia, si è discostata dal dibattito sull’architettura moderna, l’architettura israeliana, e mediante la sua idealizzazione e teorizzazione è divenuta un elemento fondamentale non solo nella costruzione della città fisica, ma anche in quella delle identità, l’identità di Tel Aviv e pertanto l’identità di Israele.
Presto, la sua falsa nostalgia, ipocritamente sicura delle proprie convinzioni, per un utopistico modernismo europeo progressivo è divenuta una retorica indirizzata inizialmente all’interno della guerra culturale locale, contro l’ala di destra di Israele, supportata massicciamente dalle popolazioni asiatiche Mizrahi (5). Quest’idea moderna, ordinata, normale, pulita e bianca della città ha consentito agli abitanti di Tel Aviv di coltivare un certo atteggiamento edonistico e sognatore nei confronti della realtà israeliana, di separare Tel Aviv dal resto di Israele e di conservare l’illusione di non vivere in questo oceano di follia e violenza, tradizione e religione, che solitamente chiamiamo “Medio Oriente”, ma in un’isola europea di libertà, laicismo e progresso. Questa retorica, supportata dal falso mito Bauhaus è stata a sua volta rigirata all’Europa in questi termini: “Non ci avete voluto a Dessau, per favore accettateci a Tel Aviv.”

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Malgrado alcune inesattezze (Tel Aviv non è mai stata realmente bianca; solo quattro
architetti israeliani hanno studiato alla Bauhaus, ma non hanno avuto molto a che fare con il “Bauhaus Style” di Tel Aviv; (6) si è parlato di questo stile solo a Tel Aviv) la storia della “Città Bianca” e del suo edificio in “Bauhaus Style” emergente dalle dune è stata ampiamente adottata dal pubblico israeliano e ha ottenuto un riconoscimento internazione che è ha raggiunto il proprio culmine nel 2004, quando la “Città Bianca” di Tel Aviv è stata inscritta nella lista dei siti del patrimonio mondiale dell’UNESCO.

La disgregazione della storia della “Città Bianca” non è tuttavia dovuta a problemi specifici, o a inesattezze, o difficoltà narrative, quanto piuttosto a pecche fondamentali.

Esse potrebbero avere origine, nello spirito della definizione di Flaubert di “Architettura” (7), dal processo arbitrario che determina cosa entra a far parte della storia e cosa ne rimane fuori e dal modo in cui l’intera storia, l’intera prospettiva, è costruita a partire dal punto cieco dell’ovvio, la storia fuori dalla storia. In questo senso, la parte più interessante della storia di Tel Aviv sono senza alcun dubbio quei capitoli che non la inseriscono nella storia della “Città Bianca”: uno dei risultati di questa campagna storiografica è stato il fatto che la storia della “Città Bianca” e la storia di questo momento piuttosto breve negli anni trenta sono divenuti il capitolo più elaborato della storia della città, sostituendo così la Storia (8) di Tel Aviv con una storia architettonica di Tel Aviv, lasciando fuori dalla sua storia i luoghi oltre il perimetro della “Città Bianca” e i tempi cruciali prima e dopo gli anni trenta.

Questo vaso di Pandora, noto come Tel Aviv, non contiene solo la storia della “Città Bianca”, una narrativa sull’arte della costruzione e della creazione, ma è contenuta in esso anche una storia che parla di guerra, annientamento, distruzione e soppressione. E proprio a causa del fatto che la costruzione storica e culturale di Tel Aviv sono state collegate alla sua costruzione fisica, i vuoti all’interno della storia di Tel Aviv sono collegati alla cancellazione fisica di siti e paesaggi dalla sua geografia.

I confini geografici della “Città Bianca” coincidono alla precisione con altri confini geopolitici - economici, sociali e politici – e non si tratta di un fatto casuale. Il perimetro della “Città Bianca” corrisponde ai confini di Tel Aviv precedentemente al 1948, esattamente quella stessa linea mentale che ha diviso la città in nord e sud a partire dagli anni Trenta. La si può riconoscere in innumerevoli modi: dal divieto del traffico diretto a nord da Jaffa alla determinazione del percorso di volo per gli aerei che atterrano all’aeroporto di Ben Gurion; dalle cifre di denaro che la città investe in infrastrutture, architettura del paesaggio e servizi igienico-sanitari nelle varie aree alla mappatura di percorsi per la consegna delle pizze.

La corrispondenza tra i diversi generi di confini attesta l’omogeneità di Tel Aviv, costruita e amministrata sotto ogni aspetto come un’entità distinta, storicamente, etnicamente e geograficamente. In quanto città ebrea differisce dalla città araba di Jaffa; in quanto città israelita differisce dagli ebrei della Diaspora; in quanto città moderna differisce dalla storia dell’Europa e del Medio Oriente. Nello stesso spirito di omogeneità, Tel Aviv definisce ogni cosa all’esterno di essa come il suo opposto. Così, ciò è che fuori dalla storia della “Città Bianca” coincide con ciò che è fuori dai confini geografici di Tel Aviv, e ciò che è fuori dalla città storica è fuori sia dalla città, sia dalla storia. Di conseguenza, luoghi, strade e strutture che non compaiono nei libri sono stati infine altresì eliminati dalla mappa. Un numero crescente di residenti, distretti e quartieri, la cui storia non è meno estesa di quella della “Città Bianca”, scoprono di essere assenti dagli annali di Tel Aviv. In alcuni casi, come nel caso di Jaffa, sono addirittura spogliati della loro storia, cancellati dalla geografia.

3)

La conquista dello spazio simbolico e storico della città da parte della “Città Bianca” è la guerra di Tel Aviv contro Jaffa.

In modo più o meno analogo, la storie di guerra, distruzione e soppressione ritroveranno le proprie origini nella storia di Tel Aviv.

In questa nuova storia, Tel Aviv non emerge più spontaneamente dalle dune, come è stato disegnato dal pittore nazionale Nahum Gutman che aveva cancellato il quartiere di Manshieh nei suoi disegni decenni prima della sua effettiva cancellazione fisica, e non è più costruita “dalla schiuma del mare e dalle nubi” come ha scritto Naomi Shemer nella sua famosa canzone “White City”, ma nasce a Jaffa ed è conformata secondo il suo rapporto con essa.

Più che nei manifesti utopistici elaborati nelle accademie europee, la storia di Tel Aviv affonda le sue radici a Jaffa e trae il proprio nutrimento da essa, e il suo sviluppo è stato il risultato dei rapporti tra le due città.

Proprio agli inizi della colonizzazione ebrea del paese, a partire dall’assedio di Napoleone su Jaffa e dalla carneficina che seguì la presa della città nel 1799, accompagnata da una prima significativa dichiarazione europea a favore della restaurazione della sovranità ebraica sulla terra santa, la guerra tra le due città ha plasmato la geografia della regione.
Questa guerra è sempre stata condotta sia sul fronte militare, sia sul fronte municipale (9) e utilizzando tutti i mezzi a disposizione, dalla “ricostruzione”, alla “conservazione”, alla “demolizione”. Questa guerra si è svolta anche attraverso canzoni ed esposizioni che naturalizzano l’azione politica e come mostra l’ultimo esempio, persino mediante i mezzi di mobilitazione della storia dell’architettura internazionale al fine di convalidare con il titolo “Bauhaus” la storia bianca e pulita di Tel Aviv. È tuttavia importante osservare che per affermarsi come città moderna, ordinata, normale, pulita e bianca, Tel Aviv ha dovuto ripensare Jaffa come sua immagine speculare, come una città sporca, criminale, devastata e nera.

Si potrebbe sostenere a proposito di questa storia che la sua fine è presumibilmente nota in anticipo, che ci sono eroi e delinquenti, ma che senza dubbio possiede vincitori e vinti; e se la storia dei vincitori viene chiamata “Città Bianca”, la storia dei perdenti può venire chiamata “Città Nera”: e dovrebbe essere quella della città di Jaffa e delle sue zone e dei suoi quartieri scomparsi, distrutti dopo la sua conquista nel 1948, dei suoi 120.000 abitanti dispersi ed esiliati e delle sue migliaia di anni di storia mancanti che non è stato possibile inscrivere nella lista dell’UNESCO.

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(1) Tel Aviv è il titolo della prima traduzione (1904) a cura di Nahoum Sokolov della novella utopistica Altneuland (1902) di Theodor Herzl. La decisione di dare alla città lo stesso nome del libro venne adottata nel 1910, quasi un anno dopo la sua istituzione ufficiale sotto il titolo Ahuzat Bait.

(2) Naomi Shemer (1930-2004) è ritenuta (non ufficialmente) una poetessa e una cantautrice di nazionalità israeliana. Molte delle sue canzoni (“Yerushalaim shel Zahav” ad esempio) vengono cantate e trattate come inni.

(3) Arik Einstein (nato nel 1939) è un cantante e un attore, una delle icone più importanti di Israele di cultura Sabra, pop culture e in alcune fasi della sua carriera persino di controcultura. In quanto tale, egli è anche uno dei monumenti più conosciuti di Tel Aviv.

(4) Michael Levin, White City: Architecture of the International Style in Israel, Tel Aviv Museum of Art, Tel Aviv, 1984

(5) Mizrahi (in ebraico “orientali”). L’identità Mizrahi riguarda gli Ebrei originari dei paesi musulmani.

(6) Il primo fu Shlomo Bernstein, che trascorse due semestri alla Bauhaus prima di ritornare a Israele, dove lavorò per la maggior parte della sua vita professionale presso il Dipartimento di Ingegneria di Tel Aviv, lasciando solo un’impronta molto modesta sul paesaggio della città. Il secondo fu Munio Weinraub-Gitai che lavorò ad Haifa e nel Nord di Israele, realizzando una serie di strutture straordinarie nello spirito di Mies che si distinguevano in modo significativo dall’architettura tipica del paese di quel periodo per l’attenzione al dettaglio e alla costruzione, ma che non aveva mai costruito a Tel Aviv. Il terzo studente della Bauhaus fu Shmuel Mistechkin, che costruì numerosi edifici per appartamenti a Tel Aviv durante questo periodo, ma la maggior parte del cui lavoro fu fatto per il dipartimento di pianificazione dell’Hagana (organizzazione paramilitare ebraica) o del movimento dei kibbutz in altre parti del paese. L’unico architetto locale che ha lasciato un segno distinto su Tel Aviv (e su Israele nel suo complesso) è stato Arieh Sharon, che studiò presso la Bauhaus Dessau. Facendo riferimento alla leggenda urbana di Tel Aviv, il problema principale legato a Sharon sta nel fatto che in quanto effettivo studente della Bauhaus, le sue strutture semplici, lineari, pragmatiche non richiamavano in alcun modo le scatole stilizzate, tipiche di ciò che è convenzionalmente noto ad Israele come “Bauhaus Style di Tel Aviv.”

(7) Nel suo “Dizionario delle idee ricevute” Gustave Flaubert definì il termine “Architettura” con queste parole: “Esistono solo quattro tipi di architettura. Tralasciando ovviamente quella egiziana, “ciclopica”, assira, indiana, cinese, gotica, romanica, ecc.”

(8) “L’Histoire avec sa grande hache” – come soleva dire Georges Perec. Un gioco di parole giocato sul termine francese “ache” che indica la lettera H dell’alfabeto; anteponendo la lettera H, il termine “hache” così ottenuto significa “scure”; “grande” sta sia per “maiuscola”, che per “grossa”; la traduzione letterale suona come “la storia (Histoire) con l’H maiuscola / la storia con la sua “grossa scure”) in Georges Perec, W ou le souvenir d’enfance (W o il ricordo d’infanzia), Parigi: Denoël, 1975.

(9) Ancora a tutt’oggi, in cui Jaffa è apparentemente completamente occupata da Israele, continuano a esserci numerose basi militari disseminate in tutta la città.