Riciclo di congetture

di Paul Domela

Una volta mi è stato spiegato che gli artisti vogliono sempre vivere dove altri artisti hanno vissuto e lavorato prima di loro. Le orme di Rembrandt, Picasso, Joyce, Warhol o John Lennon avevano un potere trascinante. È possibile che alla base di molta pratica artistica contemporanea vi sia spesso una curiosa sensazione di continuum storico e distacco radicale, la quale potrebbe anche rappresentare un valido motivo perché un artista scelga di vivere in un determinato luogo. Ad ogni modo, trovo che una conversazione con la storia dell’arte non produca alcun effetto se non viene raffrontata al presente. Esiste, naturalmente, anche un altro approccio al fare arte, il quale si rifà non tanto al corso storico, bensì alle necessità di oggi o alle possibilità di cui dispongono altri campi d’azione. Queste pratiche di migrazione risultano assai frustranti per una storia dell’arte che si propone di definire un tempo e un luogo, e si potrebbe leggere in questa luce il costante sforzo con cui critici e storici dell’arte cercano di racchiudere entro i limiti della disciplina le pratiche più correnti.
Migrazione e mobilità vengono in qualche modo assorbite in una nozione essenzialmente omologata della cultura come contributo o sottrazione ad una prerogativa territoriale e radicata. Negli ultimi venticinque anni questa posizione ha perso molto dei suoi fondamenti, soprattutto grazie al frutto di studi coloniali e post-coloniali, ma l’interdipendenza fra luogo e identità continua a sollevare emozioni violente e nella presente fase di recessione ci vorranno grande coraggio e abilità politici per fronteggiare il sensibile aumento di xenofobia e protezionismo.

Storicamente le città-porto hanno fatto da sfondo a tali negoziazioni e rappresentano comprensibilmente un cosmopolitismo in cui il flusso della marea e del commercio ha messo in evidenza la temporalità di luogo e persone. Nell’ultima fase della globalizzazione i porti sono tornati in auge sia nel trasporto di merci che, metaforicamente, come paradigma di mondialità. La circolazione di persone e idee oggi non avviene più attraverso i porti in quanto tali, bensì attraverso spazi aperti e per analogia. D’altra parte, se si vuole suggerire che il cosmopolitismo sia in qualche modo fondato nei mattoni e nella calce, il recupero di edifici dovrebbe anche portare beneficio ad una pluralità interculturale che avvalora il pensiero urbano contemporaneo riguardo al futuro successo delle città europee. Il riutilizzo di vecchi magazzini doganali a fini culturali, residenziali e commerciali pone rimedio ad uno stato di abbandono e decadimento, ma mattoni migliori non basteranno da soli a riportare il tumulto delle navi da linea in fase di imbarco e sbarco o la fertilità della libertà intellettuale. Il cosmopolitismo è pertanto non una qualità del luogo, ma uno stato delle persone, una pratica relazionale di differenza, trasformazione, negoziazione e produzione.

In tempi in cui l’ansiosa ricerca di avidità viene messa da parte possiamo forse iniziare a pensare di rivendicare la mondialità delle città-porto come il negativo dell’incarcerazione della migrazione politica ed economica. Ingigantendo le “zone franche” delle merci da container, le città portuali ospiterebbero uno stato di eccezione concertata, un’espansione tra nazioni del Mare Liberum tale da includere il passaggio innocente attraverso porti liberi. Hugo Grotius, benché ne scrivesse con intenti patriottici, considerava i mari una proprietà comune soggetta a regole internazionali a beneficio di tutti. Naturalmente, perché possa includere le città-porto, la legge dei mari liberi dovrebbe espandersi verso l’interno e per trovare la risposta dobbiamo solo seguire la disputa tra Mare Liberum e Mare Clausum, ovvero tra Olandesi ed Inglesi, e invertire la soluzione posta da Cornelis van Bynkershoek alla questione delle acque territoriali: le acque costiere eserciterebbero diritti sugli stati adiacenti. L’ampiezza del territorio che potrebbe essere rivendicato dal “continente negativo” corrisponderebbe a circa tre miglia, ovvero la distanza a cui un cannone potrebbe sparare dalla riva. Questa “regola dello sparo del cannone”, che risale al XVIII secolo, varrebbe per tutte le città-porto di medie dimensioni. Una simile traduzione in termini di spazio del “continente negativo” potrebbe dare un volto all’idea di non nazione e avvalorerebbe l’idea dell’essere apolidi come logica conclusione di un internazionalismo accelerato. Poco più di un secolo fa ai navigatori non sarebbe apparso inverosimile questo scenario, riconoscibile come un riflesso di un’esperienza vissuta. Oggi questa estesa zona di transito consentirebbe all’emigrante di superare la dicotomia turista-nomade quale fondamento della mobilità globale. Per le città-porto sarebbe poco più di un ripristino di una gravità relazionale che tende verso altre spiagge più che verso l’interno.