Politica e memoria

di Luigi Benedetti

La politica, scienza e arte del governare, costantemente si confronta con la memoria. Lo fa in modi diversi e contemporaneamente presenti.

Nel modo più semplice e tradizionale, custodisce attraverso il ricordo la presenza ideale del passato, e compie un atto di testimonianza che consiste nell’affermazione della forza vitale dei valori che contraddistinguono un periodo della nostra storia comune. Senz’altro, la stagione della Resistenza è serbata e custodita nella memoria comune come una presenza ideale e viva, ricca e generatrice di forza polemica e di riflessione. Il ricordo del passato, la funzione di ritenzione, richiamo, riconoscimento che è propria della memoria, non trascolora in archeologia, ma diviene promessa del futuro.

Ma poiché la memoria è legata per sua natura al passato, sconta il rischio, che spesso diviene concreto pericolo, del congelamento delle esperienze vissute e del loro irrigidimento in icone e simboli del tutto innaturali e privati della carica di umanità che li aveva resi così affascinanti e ricchi di un’energia che voleva davvero cambiare il mondo.

E ancora, la memoria che si lega al passato viene deformata e ulteriormente scissa dalla realtà nella quale le esperienze si svilupparono, in quanto sovente ne viene fatto un uso tutto presente e subalterno ai bisogni dell’attualità. Una memoria-supermarket, al quale tutti ci serviamo mescolando prodotti e ingredienti secondo una ricetta simbolica estremamente “parziale”. Una memoria, quindi, ingannevole, che mentendo su se stessa finisce per alterare anche il presente.

Quello della memoria e del suo utilizzo è un pendolo, che da sempre comprensibilmente oscilla fra due punti: la rappresentazione del passato e la sua capacità, attraverso la rappresentazione simbolica, di generare il futuro. Il compito e la sfida per chi amministra è non lasciare che l’oscillazione del pendolo della memoria si blocchi, che la memoria si cristallizzi e perda la sua capacità peculiare, che è il dono di creare il futuro nutrendolo delle energie del passato.

La memoria e la presenza della Resistenza erano e continuano ad essere allo stesso tempo una preziosa risorsa e un severo banco di prova per chi si prende cura della “cosa pubblica”. In un luogo come Modena e la sua provincia, e di riflesso nelle sue amministrazioni locali, la memoria della Resistenza ha costituito un patrimonio collettivo e individuale col quale fare i conti, ha intrecciato destini individuali e sviluppo civile di un territorio, è parte del “genoma" della popolazione. E’ un’eredità ricca e pesante, che il tempo tende a sfumare nei suoi contorni.

La gestione di quest’eredità è stata, potremmo dire, naturale fino a quando gli uomini che avevano dato vita a quella stagione sono stati presenti nelle stesse istituzioni. Non importa se su posizioni diverse, talvolta opposte. C’era un momento fondante comune e avevamo di fronte una generazione della memoria che viveva passioni e progetti politici forti. Il lavoro del tempo e dell’età ha mutato questa prospettiva. Che l’orizzonte della Resistenza sia divenuto un paesaggio sempre più lontano ha portato a sovraesporre la “teoria” di questa memoria, la sua struttura ideologica, ponendo involontariamente in secondo piano la carica umana e individuale dei protagonisti di un’epoca. Sul palcoscenico sono rimasti valori e monumenti “ripuliti” e riedificati attraverso una rielaborazione, sono usciti di scena volti, persone, storie.

L’umanità, sconvolgente e commovente, dei protagonisti di ogni parte, viene negata, preferendo una via che crea figure astratte, tutte in bianco e nero, certo più adatte a farne pretesto e occasione di scontro politico, anziché occasione di riflessione su vere e tormentate esperienze di impegno civile e politico, in ultima analisi sul percorso che può portare un Paese frantumato da una guerra a ricostituirsi in una nazione democratica, integrando nel nuovo progetto tutti i protagonisti e i naufraghi della fase storica precedente.

Il fascino e l’intelligenza del progetto di Conti stanno nella capacità di cogliere questo nesso. Ripartire dagli uomini, raccontare le storie di chi ha scelto, di coloro che hanno vissuto e sanno trasmettere e raccontare, creare sentimenti con la forza della propria umanità. L’(apparente) paradosso è che questo progetto non nasce su basi di affinità ideologica, è giustamente privo dello sgradevole sapore della “propaganda”, ma trae forza dal racconto di vite vere e coinvolgenti, e spinge a riflettere sul contrasto che naturalmente emerge con lo smarrimento diffuso nella società e allo stesso tempo con la difficoltà che sperimenta oggi chi vuol dar vita a un progetto sociale nuovo attraverso la politica.

I volti e le narrazioni spingono a riflettere sul rapporto con la realtà odierna, e sulla capacità di ricomporre i frammenti di un discorso comune che spesso la politica sembra smarrire. Il passato porta sempre segni anticipatori del futuro. Per questo, ora più che mai, è necessario e irrinunciabile tenere il filo che ci lega a quegli anni e a quegli uomini, e allo loro passione civile e sociale.

”Eravamo tutti uguali” diviene così un’occasione preziosa per riportare la storia fra noi attraverso gli uomini. Il senso del sostegno delle istituzioni modenesi al progetto è proprio in questa aspirazione. Scuotere la società e le istituzioni che la rappresentano attraverso voci, volti, oggetti, immagini che hanno costituito il quotidiano di chi ha creato il fondamento del sistema politico e sociale in cui oggi viviamo.