Limes

di Simon-Pierre Hamelin

Dicono di avermi visto un mattino ventoso affrettarmi fino al porto, con il passo rapido e vacillante.
Dicono che avrei oltrepassato la spessa frontiera senza accorgermene; come si attraversa una porta prontamente richiusa, ci si lascia poi alle spalle un rimpianto.
Si racconta della mia fuga, una leggenda sbocciata e ben presto appassita, la si enfatizza, ognuno la ricama a modo suo: “Ha oltrepassato la frontiera” si ripete a mezza voce, gli occhi sgranati per l’annuncio, una fuga scandita in segreto ai quattro angoli della città. E tutto ciò a favore delle chiacchiere del Boulevard; perlomeno per questo pomeriggio.
Si racconta molto e senza sapere, perché questa frontiera evidente non la si oltrepassa. Tangeri, il mio universo in un fazzoletto da taschino, la mia ombra si aggira sempre nei tuoi vicoli, modellando il pavé viscido delle tue strade. Ancora a lungo tormenterò il sole che risplende intero sulle tue terrazze. E credimi, attraverserò comunque la tua barriera, ma solo dopo aver oltrepassato e assaporato il passaggio delle altre frontiere, le tue, numerose, invisibili.

Le attraverso e le riattraverso, ingoiandole più volte al giorno; e durante le notti di primavera, dove qualsiasi passaggio diviene possibile, dove mi sembra di restare sospeso per un istante in equilibrio sulle tue linee.

Ne attraverso con prudenza, in particolare quella che separa la “Médina” dal “Grand Socco” , la più venerabile, distinta in passato da un solco nella terra fresca e benedetta. Ed è spesso il primo rito del mattino, questo passaggio sotto l’arco che oltrepassa la linea, frequentata inconsapevolmente da una folla anonima. E tuttavia noto alcuni che, come me, indugiano un istante, alzano gli occhi per un attimo, impercettibile.

Ne attraverso un’altra, a testa bassa, la guancia rossa dalla vergogna, discendendo la “Montagne” ai margini di un quartiere anonimo, tutt’altro mondo rispetto a quello dei benestanti che vivono qui a Tangeri, che oltrepassano con sufficienza tutte le frontiere ben segnalate sulle cartine. La supero correndo e brucio ancora di quell’orgoglio di poeta ebbro, riempito di visti e inviti mondani, che dalla sua poltrona Luigi XVI ci racconta il Mondo a suon di certezze sentite dire, prigioniero egli stesso della propria frontiera, quella opaca, tanto resistente da soffocarcisi. La poesia è nata altrove, distante pochi passi dispersi, tra il cielo e il mare, su di una spiaggia abbandonata alla sera: attorno a un fuoco danzante un uomo anziano canta, accompagnato dal suo oud , una canzone romantica che impone il suo silenzio alle carezze delle onde sul bagnasciuga. Più lontano, Mrabet parla alle sirene. Ed è un’altra frontiera che cede, quella che isolando i nostri sensi impediva loro troppo spesso di unirsi ai venti del Distretto.

Oltrepasso quella del tempo nella stessa mezz’ora. Le mie labbra lasciano il guanto di una Lady inglese per andare a infrangersi su di un bicchiere di tè bollente nel café vicino a questo salotto del secolo scorso. Nani in fez e djellabas inamidati servono dei capitani centenari, dei re carnevaleschi senza corona dalle maniere ricercate. Un gallo bianco, maestoso, passa di poltrona in poltrona e con un colpo d’ala spettina la Lady: andrà sempre così, non è vero? Di fronte, oltre la via-divisoria, nel café buio dalle persiane abbassate, gli occhi fissati sulla cittadella Europa, degli uomini vigorosi fermati bruscamente nel pieno splendore dell’età. E contro i vetri di questo stesso caffè, questi uomini sani che non ne hanno più l’aria, un cellulare in entrambe le mani, le teste coperte di cappelli chiassosi, scommettono tutto il giorno sul futuro. Che viene giocato su un piccolo schermo tuonante di promesse future: dei purosangue corrono a Vincennes , nel fango, sotto la pioggia battente. Da una parte come dall’altra si consacra lo stesso culto per il cavallo.

Oltrepasso le mie frontiere, le vostre, quelle che separano le lingue, le civiltà con la lettera Maiuscola. Rue d’Angleterre: una babouchka nata nell’esilio a Odessa, prima di tutte le guerre, mi bacia sulla fronte e mi benedice in russo: “Piccolo Sasha, torna a trovarmi presto. Ci berremo del tè con la marmellata. Io ti reciterò la mia poesia; parleremo del paese. Non dimenticarti gli orari del battello per Trieste, devono essere cambiati da…”. Sotto casa sua, chiedo al negoziante una Marquise con il mio povero sabir – suona grezzo e familiare – la lingua collosa di tutti quei bohème arenati qui. Sidi Bouabib richiama i fedeli, Sant’Andrea suona: è domenica. Batuji abbassa la serranda di ferro e se ne va trotterellando per rue du Portugal, dei fiori in mano, la fronte sporca di zafferano. Se ne va a ornare l’idolo del minuscolo tempio indù che di nascosto riposa in un angolo del cimitero ebreo. È il solo che viene a pregarci ed il rabbino ormai da tempo fa finta di non vedere. Ganesh è ricoperto di carminio, odora di petali macerati, incenso e burro rancido. Certo c’e un tempio anche a Gibilterra, più grande e maestoso; ma Batuji non ama il mare, e nemmeno le scimmie. E quando unisce le mani al di sopra dell’idolo, si alza da una cantina della Médina bassa la preghiera di un prete nero: “Padre Nostro che sei nei cieli, facci attraversare il Distretto. Del pane, ne avremo sempre, così come nel deserto attraversato a piedi, fino a questo muro che sale nel cielo”. Si sistema il suo colletto bianco e se ne va a tranquillizzare le sue pecorelle clandestine.

Oltrepasso la frontiera proibita, pochi gradini che sinuosamente portano alla tua camera. Nessuna porta per scalfire il mio slancio, tantomeno timbri sul passaporto: gli unici testimoni saranno alcuni nostri ricordi. Nel ritmo regolare del tuo respiro sonnecchi o fingi di sonnecchiare.
Il tuo petto scandisce il tempo; il contorno della tua anca lo spazio. Di frontiere, tu, non ne riconosci alcuna. Ma quando avrò passato il Rubicone così desiderato da tutti alla follia, quando avrò risposto alla sfida che mi si lancia in viso come un guanto, ti ricorderai allora di quelle frontiere che abbiamo passato insieme, senza mai appoggiare i piedi per terra tanto il vento forte e orgoglioso ci trasportava? Vedrai ancora il mio sorriso declinato sui volti intorpiditi dei sognatori d’Europa che incroci senza sosta? Rimpiangerai un giorno il tempo in cui noi eravamo amici, dove io ti traghettavo di collina in vallata, senza mai inciampare sul lontano limes?

Dicono in giro di averti visto, un mattino ventoso condurmi fino al porto, con il passo rapido e vacillante. Dicono in giro di averti visto spingermi dietro un muro, senza uno sguardo e dei rimpianti. Ma la mia ombra si aggira ancora sui tuoi fianchi, modellando il pavé viscido delle tue strade. Ancora a lungo tormenterò il sole che risplende intero sulle tue terrazze.

Tangeri, 2008

Nei paesi nord-africani indica la parte vecchia della città.

Piazza centrale di Tangeri.

Quartiere residenziale dominante il Distretto.

Strumento musicale arabo a corde, simile ad un mandolino.

Lunga veste a maniche lunghe con cappuccio.

Ippodromo a est di Parigi.

Parola russa che significa donna anziana.

Sigaretta di marca marocchina.

Dialetto che mescola arabo, francese, spagnolo e italiano.

Moschea del Grand Socco.